Esiste un’ironia elementare che si confonde
con la conoscenza e che, come l’arte, è figlia
dell’otium. Certo, l’ironia è fin troppo morale
per essere veramente artistica, come è troppo
crudele per essere veramente comica. Tuttavia
un elemento le avvicina: l’arte, la comicità
e l’ironia diventano possibili quando si attenua
l’urgenza vitale. Ma l’ironista è ancora più
libero di chi ride.[…] L’ironia, che non teme
più le sorprese, gioca con il pericolo.
V. Jankélévitch, L’ironia
L’umorismo, la comicità e l’ironia non sono soltanto “oggetti” di analisi critica. Sono vere e proprie “modalità” di pensiero che interagisco e si sovrappongono alla storia della filosofia. La serietà, dice Jankélévitch in un saggio dedicato all’ironia, «è essenzialmente fragile. Il nostro rispetto svanisce quando scopriamo da quali minuscole cause dipendano i più grandiosi avvenimenti della storia o della vita interiore». Al discorso “serio”, monolitico e solitario, si contrappone la risata, ironica e malinconica, del filosofo disincantato, simile a Democrito. Il pensiero scopre la pluralità, frammentata e scomposta, che compone il mondo: «i sentimenti, le idee devono rinunciare alla loro solitudine signorile per dei rapporti umilianti di vicinato, per coabitare nel tempo e nello spazio con la moltitudine» .
L’ironia, come declinazione propriamente filosofica dell’umorismo, si impone come proprietà irriducibile della libertà di pensiero e diviene un tema cardine della riflessione contemporanea. Il discorso ironico, parafrasando un frammento eracliteo, “non dice (leghei) e non nasconde (kryptei), ma dà segni (semainei)”: non offre soluzioni, non “dice” risposte che esauriscano le domande, ma neanche “nasconde” occultando la verità. Semainei, dà segni. Questa forma estrema di “umorismo filosofico” è un fenomeno che gioca con la contraddizione: è quella forma del discorso – spiega Kierkegaard – «la cui caratteristica è di dire l’opposto di quello che si pensa» . Si invertono gli opposti: «nasconde il suo scherzo nella serietà, la sua serietà nello scherzo […] così può anche venirgli di passare per cattivo, pur essendo buono» . Non si tratta, però, di una menzogna che evita il confronto con la realtà. Al contrario, il pensiero moristico si espone, si mette in pericolo “indicando” – nel riso beffardo e distaccato – la direzione da seguire: un gesto carico di conseguenze e di responsabilità per l’interlocutore. Invece di definire in termini ultimativi una questione, l’umorismo ironico mostra i limiti di ogni “verità”, evidenzia la cornice concettuale di riferimento decostruendone i pregiudizi di partenza. Si tratta di un tentativo – che gioca con il pericolo – di andare oltre il discorso, di mostrare (in negativo) che cosa sta al di là del contesto. L’umorismo e la filosofia, quindi, si incontrano in una superiore forma di saggezza dedita alla libertà. L’umorismo diventa veicolo di una filosofia trasformata: una filosofia non pietrificata, ma che si rimette costantemente in discussione senza mediazioni e compromessi. Una palestra che tiene in allenamento costante il pensiero costringendolo ad essere sempre più esigente e vigile.
L’opposizione serio/comico, in questo senso, non è altro che l’equivalente di altre contrapposizioni sedimentate dalla cultura ufficiale: alto e basso, significante e insignificante, immutabile e accidentale, essenziale e superfluo, adeguato e inadeguato, normale e anormale, razionale e irrazionale. Ripropone, cioè, una distinzione categoriale tra ciò che è propriamente filosofico e ciò che, senza dubbio, non lo è. In questo schema binario, l’umorismo non è considerato degno di uno studio serio e rigoroso e, tanto meno, veicolo di una particolare forma di pensiero alternativa alla “chiara ed evidente” razionalità cartesiana. È destinato, piuttosto, a riecheggiare fuori dalle mura della cultura «rappresentando un ospite poco gradito e un intruso sconveniente, da tenere a bada o ricacciare nelle basse cucine del palazzo» . La “verità” filtrata dall’umorismo, quindi, passa per l’errore e si confronta con la contraddizione: non ammette la fede, perché ama il dubbio. È simile all’argomentare ironico di cui parla Jankélévitch: gioca con i silenzi, con le allusioni, con le omissioni, con i frammenti; «crivella con le sue frecciatine pungenti il manto di nubi in cui si avvolge il pathos»; «sminuzza le totalità opprimenti o risibilmente solenni, per collocare al loro posto una totalità pneumatica, una totalità esoterica, una totalità dell’invisibile e secondo la qualità pura» .
L’umorismo, però, è un passo ulteriore. Accompagna un pensiero che ha la passione per il paradosso e abbandona una dialettica sicura nel suo incedere sistematico. Il pensare umoristico desidera l’urto. In questo senso Kierkegaard si definisce un “umorista” che si è affidato alle intermittenze di un pensare costitutivamente mancante e deficitario: «se si volesse da ultimo porre il problema relativo alla “validità eterna” dell’ironia – scrive Kierkegaard – esso potrà trovare la sua risposta solo se ci si pone sul terreno dell’umorismo. Lo humour contiene una scempsi assai più profonda che non l’ironia; qui tutto verte, infatti, non già intorno alla finitezza, bensì intorno alla peccaminosità. […] Esso si muove entro determinazioni, non già umane, bensì teandriche (divino-umane); esso non trova pace nel fatto di rendere uomo l’uomo, bensì del fare dell’uomo il Dio-uomo» . L’umorismo, così inteso, è prossimo al religioso: rivela un’esigenza di assoluto nascosta dietro una percezione contingente e mediata.